Oggi, 27 Marzo, è la giornata mondiale del teatro, istituita a Vienna nel 1961. Per la prima volta viene festeggiata a sipari chiusi.
Per tale motivo il nostro Marco Artusi propone una nuova riflessione sull’importanza del rito comune nel momento in cui ci è stato privato.
Oggi il quotidiano è diverso dal solito, e la giornata del teatro può avere altra valenza
Nel calendario delle giornate mondiali oggi tocca a quella del teatro.
Lo svolgimento, secondo indicazioni dell’UNESCO che l’ha istituita prevederebbe che noi dal palcoscenico si leggesse un messaggio contenente le riflessioni di una personalità del teatro, sul tema del teatro stesso e della pace fra i popoli.
Oggi, come sappiamo, non sarà così.
Oggi 27 marzo 2020 ci si arrangia.
Per farlo occorre, prima di tutto, saltare a pié pari gli esantemi da orticaria che le giornate mondiali generano (almeno a me) e guardare oltre, nella direzione della svolta a U che le provocazioni ci fanno sempre imboccare. Se c’è bisogno di una giornata mondiale, vuol dire che il problema che l’oggetto della giornata ha, non è stato risolto e probabilmente la celebrazione non è il modo giusto per risolverlo.
Ma oggi il quotidiano è diverso dal solito, e la giornata del teatro può avere altra valenza.
Oggi 27 marzo 2020, forse è proprio il debole punto di forza di questa giornata mondiale che ci può aiutare a risolvere qualcosa: oggi celebrare un rito come quello del teatro che prevede un rapporto fisico fra persone, è probabilmente il modo migliore di pensarci umani.
Oggi la deprivazione fisica di cui giocoforza soffriamo – un corpo atrofizzato, che ci obbliga a cercare una parvenza di fisicità nel fitness casalingo, nel mangiare, bere e fare sesso, talvolta in termini solipsistici – è il segnale che riti comunitari come quello teatrale sono non solo importanti, ma necessari.
Il bisogno di toccarsi, stabilire relazioni fisiche, comprendersi in un’assemblea che compie un rito comune, esser parte non mediata di un avvenimento, ci risultano chiari con tutta la loro evidenza in questo momento in cui ne siamo privati.
Torneranno ad aprirsi i sipari e noi saremo lì non solo perché ci piace il nostro lavoro, e non certamente perché crediamo di essere indispensabili per creare comunità, ma per il fatto che il nostro essere umani ci obbliga gioiosamente ad essere lì.